Libri su Giovanni Papini

1981


Giovanni B. Frangini

Papini vivo
Pensieri e considerazioni - non sitematiche - in occasione del centenario della nascita
pp. 3-23
1 - 2 -(3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9-10
11-12-13-14-15-16-17-18-19-20
21-22-23)24-25-26-27-28-29-30



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Sono esattamente, in questo 1981, cento anni dalla nascita di Giovanni Papini e venticinque dalla sua morte (1), un tempo bastantemente sufficiente per cercare di esaminare la sua figura di uomo di cultura e di impegno con quel distacco dalle passioni che, vivo lui, suscitavano o incondizionati consensi o incondizionati rifiuti: d'altra parte la sua figura è assai più complessa di quanto molte volte í più siano stati portati a credere ed anche la sua lunga milizia cattolica è assai più complessa e sofferta di quanto possa apparire ad una critica superficiale. Infatti una attenta lettura del suo "Diario", che comprende l'arco degli anni che vanno dal 1916 al 1953 pur con le lacune di vari anni in cui venne abbandonato, offre la visione di un Papini cattolico ma spesso dilacerato dalla sua intima natura che tende a voler spiegare e capire tutte le cose e mirante ad opere titaniche non sempre in linea con una rigorosa ortodossia.
   Nella triade di cattolici scrittori (2) che maggiormente illustrò il periodo che dagli inizi del nostro secolo giunge quasi ai nostri giorni, formata da Giuliotti, Papini e Bargellini, si può rilevare come il Giuliotti incarna un tipo di cattolico che va avanti senza tentennamenti, con la foga di un antico monaco medioevale pronto a scagliare invettive ed anatemi ed è lui, più di Giovanni Papini, il vero "cattolico belva", tale ci si configura alla lettura di opere come "L'ora di Barabba" o "Poesie" (3); all'opposto il cattolicesimo di Piero Bargellini che parte anche lui dall'assoluta fedeltà ai principi della. Chiesa Cattolica Romana sostenendo nel "Calendario dei pensieri e delle pratiche solari" (4) essere sufficiente all'uomo per una sana vita spirituale e materiale seguire il Catechismo ed il "Sesto Caio Baccelli", è permeato da un sentimento francescano che rende la sua milizia lineare e serena, senza urla e brusche impennate: fra queste due posizioni si colloca, a nostro parere, Giovanni Papini, sia cronologicamente, ma questo è un aspetto assai marginale, sia soprattutto intellettualmente.
   Il cattolicesimo di Papini ci appare piuttosto contrastato anche nel pieno della sua conversione e spesso troviamo nel suo Diario annotazioni che attestano nel suo io più profondo aspetti del Papini pragmatista, del Papini aspirante ad un super io, del Papini che tutto vorrebbe capire e spiegare: in definitiva per Papini la Fede è tutt'altro che facile; significativa è una annotazione degli ultimi anni, che ci pare caratterizzante di un Papini più intimo e dove denuncia un suo inquietante interrogativo:


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"Morirò senza aver saputo, senza aver detto quel che veramente sono, nel fondo del mio torbido e complesso animo?" (5).
   Sino ad oggi scrivendo attorno all'opera di Giovanni Papini si è troppo spesso voluto salvarne una parte a discapito di un'altra, cioè vi è chi ritiene valido il solo Papini ante conversione, chi addirittura l'ultimissimo, quello delle "Schegge", come se queste non traessero origine, almeno per buona parte da scritti che risalgono ben più addietro negli anni, come "La seconda nascita" composta nel 1923 e apparsa postuma nel 1958; si sottolinea la figura dell'"operatore culturale" nel quale più che l'amore per una vera ricerca di verità prevale il gusto per la ricerca in se stessa, altri invero inquadrano il Papini nella sua complessità, nella sua profonda aspirazione alla ricerca della verità, e giungono alla conclusione quindi che tutto il Papini, l'ateo, il mago, il pragmatista, ecc, non era che un ricercare la Fede, magari un andare a tastoni ma verso una certezza, alla quale in definitiva aveva sempre aspirato e questa è indubbiamente la più attendibile interpretazione del difficoltoso e complesso cammino di Giovanni Papini, solo ci pare che non si debba ignorare come pur nella ritrovata Fede, egli abbia avuto cadute ed atteggiamenti talvolta in contrasto con lo spirito del cattolicesimo, o, per lo meno, di quel cattolicesimo di cui lui appariva quale più illustre rappresentante - cadute ve ne furono anche sul piano civile e letterario con opere come "Italia mia" (6) che rappresentano le zone d'ombra della sua produzione, e i coinvolgimenti non del tutto congeniali nel clima di una epoca.
   Una delle manchevolezze degli ambienti culturali cattolici in questi anni è stata quella di aver lasciato lentamente cadere nell'oblio la figura dì questo autore, forse in quanto i suoi vari aspetti non erano tutti comodi, se pur rappresentano, ancor oggi, un modo d'essere cattolici, a volte ben più reale di quello di tanti sciropposi intellettuali spesso foderi di gran confusione, se non portatori dì idee che ben poco hanno a che vedere con la Fede. Ma le colpe di un certo mondo cattolico nei confronti di cattolici scrittori, scomodi, sono assai numerose, forse perché alcuni di essi avevano già a suo tempo intuito le molte trappole in cui questo mondo sarebbe caduto a causa della infausta commistione fra la religione e la politica - la famosa frase di Indro Montanelli, quando invitava dalle pagine del "Giornale" a votare per la Democrazia Cristiana, ma tappandosi il naso con due dita non è gran che originale, dato che Domenico Giuliotti in occasione delle elezioni amministrative del giugno 1951 ebbe a dire a Giovanni Papini: "Prima vomito più che posso e poi vo a votare


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per la Democrazia Cristiana." (7); e sempre nel "Diario" di Papini non ci è difficile rintracciare i sintomi di questo malessere degli scrittori cattolici nei riguardi dei rapporti fra Fede e politica che negli anni del dopoguerra aveva già cominciato a germogliare vivacemente; in occasione delle elezioni del 1948 faceva questa cruda osservazione: "Pasqua di Resurrezione. Il Papa ha fatto un comizio a Piazza San Pietro nel quale ha ricordato anche di aver dato da mangiare ai romani in momenti difficili, salvandoli dalla fame. Dunque... votate per la D.C." (8).
   Sarebbe nostro desiderio in questo scritto di suggerire spunti per un ripensamento della sua opera e sul personaggio, senza cadere né nelle laudi, né nelle acrimoniose critiche, adombrarne la complessità e l'interiore coerenza unitamente alle inevitabili cadute e le umane debolezze, pur nell'estremo impegno ad essere Maestro, il tutto calato in una profonda visione cristiana della vita.

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Si suddivide il pensiero, ed in generale quindi l'opera, di Giovanni Papini in due periodi: il primo che dagli anni attorno al 1898-99, cioè dall'inizio della sua amicizia con Giuseppe Prezzolini giunge sino agli anni del primo dopoguerra, il secondo che si può datare dal 1920, anno della stesura della "Storia di Cristo", cioè gli anni della sua conversione alla Fede cristiana e che si conclude con la conclusione della sua avventura terrena. Il primo periodo rappresenta un ventennio circa di avventure intellettuali e a sua volta potrebbe venir suddiviso in tanti altri periodi, corrispondenti alle avventure intellettuali che Papini affrontò in rapido susseguirsi.
   Questo primo periodo è caratterizzato da un'aspirazione predominante del Papini a farsi Dio e buona parte delle imprese intellettuali a cui si accinge in questi anni sono marchiate da questa impronta; il secondo periodo è quello della conversione, del ritrovamento di Dio, o forse addirittura della scoperta di Dio, della conquista di alcune certezze ed è in tutto questo che egli realizza più compiutamente la sua opera di uomo e di intellettuale.
   La questione da esaminare è ora se questi periodi sono effettivamente separati fra di loro oppure se il primo non sia altro che una preparazione al secondo e pertanto finiscano per formare, in un certo senso, un tutt'uno: l'ansia di ricerca che domina gli anni sino al 1920 si placa nel trovato, (ma placa poi totalmente? Anche questo è un interrogativo da approfondire).


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   E' da considerare come tutte le speculazioni intellettuali del Papini tendevano ad una riappropriazione della Fede, come tutto il suo battagliare fra le varie idee, dottrine filosofiche o credi politici, non fosse altro che il cammino necessario per conquistare un credo definitivo. Si potrebbe anche dire che la verità che lui cercava era lì, pronta da duemila anni e che non era necessario agitarsi tanto per trovarla, ma questo sarebbe un troppo facile dire e non vanno mai ignorate le condizioni storiche e familiari in cui un personaggio viene a porsi per nascita. Giovanni Papini viene a trovarsi, al momento in cui si risvegliano in lui i primi stimoli dell'apprendimento, in un'epoca in cui il pensiero positivista e laico trova terreno fertile in un ambito post risorgimentale dove il sentimento del più trito garibaldinismo aveva solida presa, in una famiglia dove questo sentimento era ben radicato, anche a causa della partecipazione paterna alla campagna del 1860 con Garibaldi, sicché il ragazzo Papini negli anni della sua prima fanciullezza fu avviato ad una formazione che, al di là della sua volontà, fu atea e repubblicana, infatti quando parla delle sue prime letture fatte sui libri della "libreria" paterna dice chiaramente come furono a senso unico: "In quei libri trovai anche le prime spinte a riflettere, v'erano in fondo a quella meravigliosa cesta, anche cinque o sei volumacci verdi (zibaldoni volterriani di un compilatore razionalista) dove si mettevano goffamente in burletta i racconti della Bibbia e i preti del Cattolicismo. Tra le infinite cose di quel centone v'era anche l'inno a Satana del Carducci e per molto tempo ebbi più amore per l'Angelo ribelle che per il maestoso Vecchio che sta nei cieli. Riconobbi poi quanto fosse grossolana e malsicura quell'apologetica irreligiosa, ma è pur vero che debbo anche ad essa d'esser un uomo per il quale Dio non è mai esistito. Figlio di padre ateo, battezzato di nascosto; cresciuto senza prediche e senza messe, non ho mai avuto quelle che si chiamano crisi d'anima, notti di Jouffroy o scoperte della morte d'Iddio. Per me Dio non è mai morto perchè non è mai esistito vivo nell'anima mia." (9)
   Queste le premesse nell'animo del fanciullo, ma esse contenevano in sè già anche primi dubbi da quanto possiamo intendere da "La seconda nascita": "In codesta scuola, per tornare al principio, era concessa dalla legge la cosiddetta "istruzione religiosa". N'erano dispensati gli scolari su domanda scritta dei genitori o di chi ne fa le veci. Mio padre, ateo, scrisse questa domanda e fui esentato dal catechismo. Due volte la settimana, nell'ore stanche del mezzogiorno, s'affacciava alla porta un aitante vecchio vestito tutto di seta nera e rasato: tutti quanti s'alzavano con felice rimbombo in piedi. A un cenno del maestro io e un altro ragazzo s'usciva dalla scuola,


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a capo basso, sotto gli sguardi un pò invidiosi e un pò commiseranti di ottanta occhi conosciuti. 11 prete non batteva ciglio; il maestro gli cedeva con dignitosa condiscendenza la poltrona coperta dì tela cerata....
   Una volta, ch'ero solo, mi arrischiai ad origliare alla porta. La voce bassa del prete sillabava i comandamenti.
   "Onora il padre e la madre".
E per tutto quel giorno, stupito, pensai: "Perché dunque mio padre mi proibisce che impari ad onorario?" (10)
   Ma in Papini l'idea propriamente ateistica non mise mai radici, tant'è vero che sin dalle prime esperienze intellettuali sì può intendere una profonda aspirazione ai problemi metafisici ed in luì è presente e sentita in quegli anni l'aspirazione a farsi Dio quindi, anche se in forma deviata e titanica (talvolta leggendo certe sue cose si ha l'impressione di una certa megalomania) egli ha presente il senso della divinità e il suo avanzare verso il ritrovamento della verità in Dìo avviene per gradi e movimenti intellettuali e spirituali, attraverso un porsi continuo di tesi da superare la qual cosa ha spesso fatto dire di lui essere un "girella", sulla qual cosa Papini stesso è tornato più volte in varie occasioni per puntualizzare la realtà di certe situazioni: "Spergiurano tutti i pioli d'Italia che io sono una girandola, un'arcolaio, un ventaglio, un frullo, insomma nipote di Proteo e fratello del camaleonte. Gli stiliti del gazzettame, che per universale attestazione non mutan mai staggia, come il pappagallo a catena, purché il bere e mangiare sian sempre a portata del becco; gli alighierini scappucciati che, a somiglianza di torri, non crollano ai venti ma hanno cambiato più torri di un colombo viaggiatore; le testuggini zoppe, le talpe sedentarie le chiocciole casalinghe, gridan la croce addosso alla mia volubilità. In un tempo che ha incoraggiato, non meno di altri, le manifatture delle maschere e delle livree sembra che ci sia al mondo un girella solo e che questo porti il mio nome. Secondo quelli che non mi conoscono neppur da lontano io muto pensieri ad ogni stagione come le donne le mode. Sto in orecchi, fiuto il vento, e appena cambia il color dell'aria, via una capriola, ed eccomi rivestito d'altri panni: ora colla parrucca scarmigliata del petroliere, ora cui baffi ritti dello spadaccino, ora colla barba bianca di padre Cristoforo, aspettando che mi rispunti il pizzo di Mefistofele.
   Anche questa è una penitenza che mi carico addosso con letizia sufficiente, se non perfetta, e come acconto delle pene che mi son meritato. Ma se un galantuomo mi prestasse un quarto d'ora d'attenzione gli parlerei su per giù così:


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   Cominciamo dal principio: filosofia. Sono stato pessimista e in gran parte, in quanto cristiano, son pessimista anche oggi: una religione fondata sul dogma del peccato originale e sulle pene eterne non è una religione per i porcelli di Epicuro. Sono stato pragmatista e tale sono ancora, nel senso che furono pragmatisti, a loro modo, S. Agostino, Savonarola e Pascal. Sono stato sempre nemico ad oltranza del monismo, sia materialista, com'era trent'anni fà, sia idealista com'è oggi, e nemico sono ora anche di più, dopo aver ritrovato la solida tradizione dell'antico dualismo greco e cattolico.
   Nell'arte mia, che è quella di scrivere, non ho mutato, da quando insudicio i fogli, nè maestri nè bandiere. . . Rimane la religione e qui il salto c'è stato e grandissimo: dalla negazione all'affermazione, dalla titubanza alla certezza, dal diabolismo al Vangelo. Ma se il galantuomo che mi ascolta volesse, a comodo suo, riguardare l'opera mia s'accorgerebbe che c'è stata sempre in me la sete del divino, la fame dell'assoluto e di più, costante, insistente, la fede nel primato dello spirito sulla materia, dell'anima sul corpo. Quando parlavo di Dio in un libricciolo sacrilego non si sentiva il rammarico di non sentirlo evidente e presente? E quando scioccamente fantasticavo di far di me, creatura miserabile e sconcia, un Dio potente, non v'era forse l'anelanza di partecipare, in qualunque modo, alla divinità, per l'unica strada che restasse ad un ateo? E quando meditavo di farmi profeta di una religione nuova o scrivevo laide bestemmie intorno a Gesú, non v'era forse in me, come fu detto di Nietzsche, un'inconsapevole gelosia del Cristo? E la gelosia non è forse principio o postumo d'amore?..." (11)
   Giovanni Papini è stato il classico rappresentante dell'uomo moderno, alla ricerca di una "certezza" e questo suo bisogno lo dichiara apertamente nelle ultime pagine di "Un uomo finito", quando scrive: "Ho bisogno di un pò di certezza - ho bisogno di qualcosa di vero. Non posso farne a meno; non so più vivere senza. Non chiedo altro, non chiedo nulla di più, ma questo che chiedo è molto, è una straordinaria cosa: lo so. Ma la voglio in tutti imodi - a tutti i costi mi deve essere data, se pur c'è qualcuno al mondo cui preme la mia vita. Io non ho cercato che questo - fin da bambino non ho vissuto che per questo". (12)
   Si evidenzia qui la conplessità della figura di Giovanni Papini: un personaggio in cui continuano a interiormente contrastarsi le sue varie componenti il titanismo e l'umiltà che gli discende dalla misura cristiana, la necessità alla speculazione intellettuale e il desiderio di semplicità e chiarezza. Una costante del suo essere è sicuramente


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quel suo sentirsi ammaestratore di uomini ed in questo atteggiamento anche il cristiano è dibattuto fra opposte tendenze, ad esempio nel luglio del 1944, rifugiatosi alla Verna a causa degli eventi bellici diviene terziario francescano (assumendo il nome di Frà Bonaventura): ma si può affermare che il suo spirito fosse pregno di quello spirito francescano per cui l'umiltà è una delle prime virtù? (Quella di cui si parla nel terzo capoverso della "Regola dei Frati Minori" quando recita che "Consiglio inoltre, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signor Gesú Cristo che, quando vanno per il mondo non alterchino e non contendano a parole, e non giudichino gli altri; ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti ed umili, parlando con tutti onestamente, come si conviene." (13) e così per tutta la tradizione mistica di cui possiamo ricordare ciò che insegna l'anonimo estensore della "Imitazione di Cristo": ". . . Modera il soverchio desiderio di sapere, perchè vi si trova motivo di distrazione e inganno. Chi sa molto, tiene a che lo si sappia e ad essere chiamato dotto. Ma tante cose vi sono la cui conoscenza conta poco o nulla per l'anima: ed è ben stolto chi volge le sue cure ad altro invece che alle cose che gli giovano per la propria salvezza. Molte chiacchiere non danno sazietà all'anima; la bontà della víta invece rinfranca lo spirito, e una coscienza monda procura grande fiducia in Dio". (14)) quando nel 1946 scriveva che "Gozzini, tornato da Roma, mi dà varie notizie e mi parla a lungo di Federico Nardelli che a quanto pare, è divenuto una delle speranze del Vaticano. Ha scritto un libro (Biografia di Dio) che è una specie di rifacimento della Bibbia, anzi, secondo lui, la nuova Bibbia. Dice che sta per finire la Chiesa di Pietro e che comincia quella di Giovanni, cioé i laici dovranno prendere il sopravvento. Io, con "Celestino" (15), do l'esempio essendomi costituito Papa laico." (16)
   D'altra parte sempre sul "Diario" annota alcuni pensieri sull'umiltà e da questi si riporta l'impressione che egli provi una profonda insofferenza per qùesta virtù francescana: "Gli uomini che gli altri sovrastano - specie per l'altezza dell'intelletto - e che fanno sentire la superiorità loro sono generalmente odiati e la moltitudine aspetta un pretesto o un'occasione per punirli o ucciderli. L'umiltà potrebbe dunque essere una difesa contro l'odio e il pericolo di perdere la vita: una forma, cioè, di paura e di viltà". (17)
   Ci sembra evidente come in determinate occasioni in Giovanni Papini sul terziario francescano sovrastasse l'orgoglio dell'intellettuale che si sente creatore e sono sintomatiche di questa condizione le annotazioni che vengono registrate nel "Diario"


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attorno agli anni 1945 e 1946 di cui una particolarmente significativa: "Non riesco a pensare che a Celestino sesto. A poco a poco vedo la sua figura, la sua vita, la sua indole. Ha un solo difetto, questo papa, e terribile: non è mai esistito. E non ci fu papa vero che a lui somigliasse". (18)
   Questa unicità, questo non esser esistito mai altro Papa che fosse simile a quel Celestino Sesto da lui creato è indicativo di un sopravvivere di contrasti e antinomie profonde e questo suo identificarsi con Celestino Sesto, come si rilevava dalla già citata nota del 21 ottobre 1946 ci adombrano sopravvivenze in lui di quell'Uomo finito che, una trentina di anni addietro, voleva farsi Dio e che risolte le velleità giovanili esse però permangono in una qual certa misura nella prospettiva del cattolicesimo quando cioè sostituendosi, se pur sul piano letterario, al Pontefice regnate "costituendosi" Papa laico egli aspira a porsi se non più Dio, Vicario di Dio.
   Ma d'altra parte bisogna però rilevare come egli stesso si renda conto di questa complessità della sua natura e della sua anima e come che nel suo Diario assai spesso si confessi a sè stesso e si ponga molte domande a questo proposito, domande le cui risposte danno l'impressione di rimanere sempre in sospeso e che forse trovano una risposta definitiva negli ultimi tempi di Giovanni Papini, quali estreme conclusioni che egli trae dalla sua lunga esistenza operosa di un continuo impegno intellettuale, speculativo e poetico, e forse soprattutto in alcune sue "Schegge" la dove il Cristiano prevale su tutto il resto ed offre parole ed esempi di speranza, laddove nel "Diario" vi è un maggior personale pessimismo che egli, alla fine non vuole comunicare agli altri proprio perchè sul cristiano non vuol far prevalere l'intellettuale: e questo è un grande insegnamento. Infatti in una delle ultime annotazioni sul Diario egli considera che "La vita è tutta fatta di errori e di rinunzie. Nella prima metà gli errori sono più numerosi delle rinunzie. Nella seconda metà abbondano sempre gli errori ma crescono di continuo le rinunzie.
   Soltanto l'estrema rinunzia - la morte - chiude per sempre la serie degli errori". (19)
   L'ultima annotazione fatta da Papini sul suo Diario, il 10 marzo 1953, tre anni prima del decesso, è una scarna descrizione delle sue condizioni fisiche, essenziale senza alcuna considerazione, ma che parrebbe senza speranza, quasi che dopo di essa non ci possa essere altro che l'impotenza e il silenzio: "Ho passato lunghi mesi di malinconie e di sofferenze. Ho sopportato tutto per la speranza di guarire. Mi hanno bucato centinaia dí volte, mi hanno massaggiato braccia e gambe. Non posso camminare senza aiuto e la mano destra dura fatica a tenere la penna".


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   Ma il 19 febbraio 1956, pochi mesi prima della sua morte, Papini scriveva in una delle "Schegge", una delle sue cose più belle e più profondamente cristiane dove ci sembra poter affermare che l'autore vi abbia distillato tutto il succo della sua lunga esperienza, dell'uomo che si dibatté fra "L'uomo finito" e "La seconda nascita", quasi a porre questi come i limiti di un confine ideale, cose come s'usa in Toscana porre due cipressi a segnare i limiti sia della vita sia della morte, alla soglia del viale che conduce alla casa, come di quello che conduce al cimitero: "Mi stupiscono, talvolta, coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando al quale mi ha ridotto la malattia. Ho perduto l'uso delle gambe, delle braccia, delle mani e son diventato quasi cieco e quasi muto. Non posso dunque camminare nè stringere la mano di un amico nè scrivere neppure il mio nome; non posso più leggere e mi riesce quasi impossibile conversare e dettare. Sono perdite irrimediabili e rinunce tremende soprattutto per uno che aveva la continua smania di camminare a rapidi passi, leggere a tutte le ore e di scrivere tutto da sè, lettere, appunti, pensieri, articoli e libri.
   Ma non bisogna tenere in picciol conto quello che mi è rimasto ed è molto ed è il meglio.
   E' bensì vero che le cose e le persone mi appariscono come forme indeterminate e appannate, quasi fantasmi attraverso un velo di nebbia cinerea, ma è anche vero che non sono condannato alla tenebra totale: riesco ancora a godere una festosa invasione di sole e la spera di luce che s'irraggia da una lampada. Posso inoltre intravedere, quando vengono molto ravvicinate all'occhio destro, le macchie colorate dei fiori e le fattezze di un volto. Eppure questi barlumi ultimi della visione abolita sembrano miracoli gaudiosi a un uomo che da più di vent'anni vive nel terrore del buio perpetuo.
   Non basta: ho sempre la gioia di potere ascoltare le parole di un amico, la lettura di una bella poesia o di una bella storia, posso sentire un canto melodioso o una di quelle sinfonie che danno un calor nuovo a tutto l'essere.
   E tutto questo non è nulla a paragone dei doni ancor più divini che Dio mi ha lasciato. Ho salvato, sia pure a prezzo di quotidiane guerre, la fede, l'intelligenza, la memoria, l'immaginazione, la fantasia, la passione di meditare e di ragionare e quella luce interiore che si chiama intuizione o ispirazione. Ho salvato anche l'affetto dei familiari, l'amicizia degli amici, la facoltà di amare anche quelli che non conosco di persona e la felicità di essere amato da quelli che mi conoscono soltanto attraverso


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le opere. E ancora posso comunicare agli altri, sia pure con martoriante lentezza, i miei pensieri e i miei sentimenti.
   Se io potessi muovermi, parlare, vedere e scrivere, ma avessi la mente confusa e ottusa, l'intelligenza torpida e sterile, la memoria lacunosa e tarda, il cuore arido e indifferente, la mia sventura sarebbe infinitamente più terribile. Sarei un'anima morta dentro un corpo inutilmente vivo. A che mi varrebbe possedere una favella intelleggibile se non avessi nulla da dire? Ho sempre sostenuto la superiorità dello spirito sulla materia: sarei un truffatore e un vigliacco se ora, arrivato al punto della riprova, avessi cambiato opinione sotto il peso dei patiri. Ma io ho sempre preferito il martirio all'imbecillità.
   E giacchè sono in vena di confessioni voglio andare al di là del verosimile e spingermi fino all'incredibile. I segni essenziali della giovinezza sono tre: la volontà di amare, la curiosità intellettuale e lo spirito aggressivo. Nonostante la mia età, a dispetto dei miei mali, io sento fortissimo il bisogno di amore e di essere amato, ho il desiderio insaziabile di imparare cose nuove in ogni dominio del sapere e della arte e non rifuggo dalla polemica e dall'assalto quando si tratta della difesa dei supremi valori.
   Per quanto possa parere ridevole delirio ho la temerarietà di affermare che mi sento anche oggi sollevato, nell'immenso amore per la vita, dall'alta marea della gioventù". (20)
   Con questo scritto a noi pare avvenga la perfetta sutura tra il Gianfalco del "Leonardo" e di tante altre riviste di battaglia culturale e Fra' Bonaventura della Verna, ci pare sia da considerare questa prosa come un testamento morale e spirituale, più di altre opere poderose. Così pure l'ultima delle "Schegge" pubblicate, esattamente il 24 giugno 1956, festa di San Giovanni Battista, l'ultimo degli scritti di Giovanni Papini è altamente significante quando conclude, succo estremo della estrema esperienza, affermando che "Le nostre filosofie son come l'erba de' tetti che secca prima d'aver fiorito - sentenze di cenere e ragioni di vento.
  Siamo soli sull'orlo dell'infinito; perchè rifiuteremo la mano d'un padre? Siamo sbattuti, noi effimeri, dall'alito dell'eternità: perché rifiuteremo un sostegno, sia pure a patto d'esservi attaccati coi chiodi di una croce dì campagna?" (21)
   Qui l'avventura di un cristiano alla ricerca della sua Fede si è conclusa, un'avventura che iniziata in un ormai lontano giorno della fine del 1800 e che si è protratta per oltre un cinquantennio, ma ancor oggi ricca di ammaestramenti proprio


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perché molti sono i malesseri della nostra società, malesseri intellettuali e spirituali: Giovanni Papini è vivo perché insegna che pur attraverso molteplici esperienze, e molteplici errori, se si vuole nel profondo ritrovare delle certezze, anche le incongruenze contingenti e gli errori di posizioni concorreranno a farcele ritrovare.

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Si è già detto che Papini personaggio contrastato e come tale, per molti aspetti, attuale ed a suffragare questa nostra convinzione è di ausilio íl suo "Diario". A questo proposito, fra l'altro, ci sembra utile chiarire come questo, nelle intenzioni dell'autore, non era una cosa da pubblicare, ma bensì un vero e proprio diario personale, dove annotare cose che si vogliono rammemorare, pensieri, programmi, spunti da gettar giù per poi magari ripescare per qualche articolo o qualche libro; che fosse una cosa strettamente personale appare sia dal tipo di annotazioni, sia dalla discontinuità con cui è tenuto: per alcuni anni è stato tralasciato, altre volte, note sintetiche, rade, come nei primi anni 1917-1918 e 1919, altre volte per mesi non vi è stato scritto nulla; infine la nostra convinzione che questo diario avesse valore esclusivamente personale è avvalorata da una annotazione del 1930 dove Papini dichiara di "non essere un Amiel. Il diario mi attira poco. Ma siccome s'avvicina, per me, il mezzo secolo e voglio fermare alcuni propositi, maturati all'esperienze di questi ultimi anni, mi decido a riaprire questo quaderno". (22)
   Una precisa volontà d'intendere il diario come pro memoria, magari dialogo con se stesso in alcuni casi, ed è proprio per questo che lo riteniamo strumento per cercare d'intendere la personalità papiniana, in quanto qui è libera da eventuali accorgimenti letterari o evoluzioni intellettuali proprio perché non steso per un'ipotetico lettore.
   Si diceva essere Papini personaggio ancora attuale e questo si rileva alla lettura di molti suoi scritti di vario genere che riteniamo abbiano precorso fatti e pensieri da cui oggi molto si è, o si è stati, coinvolti; ad esempio possiamo osservare come Giovanni Papini, già nel 1939, pensasse ad una riapertura del Concilio Vaticano, idea da lui avanzata in quell'anno dalle pagine del "Corriere della sera", ed a cui nuovamente accenna nel 1947 nel suo Diario (23). Le "Lettere agli uomini di Celestino Sesto" adombrano tutta una serie di idee indubbiamente non afferenti la linea del pontificato dell'epoca (e che troveranno una conferma nei dibattiti e nei problemi della Chiesa sotto i pontificati succeduti a quello di Pio XII) tanto è vero che in più


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occasioni Papini mostra, e registra, dubbi e timori circa l'accoglienza che il suo libro poteva proprio dalle sfere ufficiali della Chiesa, ed infatti quest'opera, pur essendone completata la stesura il primo novembre 1945 (il lavoro era stato iniziato il primo settembre dello stesso anno), venne pubblicata, dopo molte letture private (Giuliotti, Bargellini, alcuni religiosi, qualche professore ed ai membri dell'Ultima) un anno dopo. Scriveva a questo proposito Papini il 9 febbraio del 1946: "Decido di rimandare la stampa delle Lettere di Celestino Sesto" (24) ed appena tre giorni dopo precisava ulteriormente che "non è ancora il momento di far sentire la voce di Celestino VI. Il paese è ancora in ebollizione, la Chiesa si sente minacciata, non abbiamo ancora la pace, si preparano i plebisciti; la persecuzione non è ancora terminata, c'è ancora la possibilità della fame e della guerra civile. Anche Giuliotti pensa che il mio libro, in questo momento, potrebbe accrescere lo scompiglio più che giovare. Quelli che possono intenderlo e approvarlo non aprirebbero bocca; tutti gli altri, per motivi opposti, si getterebbero addosso come cani rabbiosi a lacerarlo". (25).
   Leggendo queste ed altre sue considerazioni ci sfiora il dubbio se queste reticenze abbiano origine dalla preoccupazione di evitare maggiori scompigli in un momento ritenuto particolarmente delicato o sé, diversamente, Papini teme per sè e per íl suo libro, se prevalga il suo Ego anzichè il senso di responsabile umanitarismo, insomma talvolta ci pare si evidenzi un'ambiguità di fondo (ed anche questo è molto attuale negli intellettuali), un dubbio su alcuni comportamenti: prevale il Maestro o l'intellettuale? L'amore per gli uomini o per la propria opera? Tutto ciò nulla toglie comunque all'interesse che la lettura delle Lettere di Celestino sesto suscita.
   Infine, dopo lunga penitenza (vi furono forse anche veti di matrice politica oppure religiosa) (26) le "Lettere agli uomini di Celestino Sesto", ad un anno di distanza dalla loro stesura venivano pubblicate: il 9 ottobre 1946 Attilio Vallecchi portava a Giovanni Papini le primissime copie. Il pensiero di Papini in questo particolare momento, s'ha anche da tener conto del particolare momento storico che decisamente determina anche ripensamenti alla luce di tutta la tragedia della guerra, della guerra civile e del dopoguerra, è decisamente critico verso un certo modo di condurre la barca di Pietro e verso modi di interpretare la Fede, un suo pensiero sempre di quegli anni è abbastanza caratterizzante la sua preveggenza per quelli che saranno i motivi di polemica nell'ambito della


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Chiesa per i trent'anni che seguiranno: "Il Cattolicismo è divenuto troppo chiuso e stretto; il Comunismo sopprime ogni autonomia spirituale; l'Americanismo non é che conformismo legato al dispotismo del denaro: la vittima dei tempi moderni è la libertà. Bisogna risalire dal Cattolicismo al Cristianesimo per fare gli uomini liberi: siate cristiani ed avrete il diritto di essere anarchici". (27)

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   Un'altra possibilità d'approfondimento dell'esser cristiano in Giovanni Papini ci viene offerta dalla storia del Lupo di Gubbio di cui parla a Giuseppe Prezzolini in una lettera del 4 ottobre 1925, affermando che: "su quella storia del lupo di Gubbio e del Cristianesimo bisogna che una volta o l'altra mi spieghi. Voi altri non cristiani vi siete fatti l'idea del "cristiano tipo" attraverso le figurine devote del bambino coll'agnello in braccio o di San Francesco colle tortore. Ma tre quarti del Cristianesimo (cominciando dall'immenso San Paolo) son polemica: i più grandi cristiani sono stati guerrieri, assalitori e difensori; Tertulliano, Sant'Agostino, Savonarola, Pascal, Manzoni e mille altri. Nel Cattolicesimo c'è posto per tutte le qualità d'anime (purché abbiano in comune la Fede), ci sono quelli che contemplano in solitudine, quelli che servono i lebbrosi, quelli che persuadono con dolcezza, quelli che trascinano con quella forma particolare d'amore che è la violenza.........Ognuno ha un'attitudine sua propria, un suo "forte", una sua disposizione: e ciascuno serve Dio con la sua individualità. Ma voi altri vi siete fissati nell'idea che il cristiano è un rammollito "benisseur" che borbotta pater nostri e va in cerca di pedate nel culo." (28)
   L'allegoria del lupo di Gubbio la troviamo in una forte poesia, se non proprio bella, dalla quale si ha coscienza di come l'autore si riconosca in essa, e come si rispecchi il suo essere di convertito:
   "Dio non ti dette coricin di lépore: ma denti lunghi a punta di pugnale: buon'a graffiare l'assonnate pecore. [........]
   Or che urleresti il tuo gergo lupesco/ se in cambio del capretto e del castrone/ ti dessero il pan muffo di Francesco/ o qualche scellerato brodolone?/ Anch'io, nei tempi della fame buia,/ fui da lupo nella selva etrusca/[........] di Lui che il cuore per dolcezza ruppe/ dentro il mio petto, voglio nutricarmi./ S'Egli mi fece simile alla fiera/ che rugghia e morde contro i falsi dei,/ non voglio il ferro barattare in cera/ per compiacere vigliacchi e farisei./ E se di Cristo il gregge sonnolento/ indugia nel cammino


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duro e cupo/ necesse che talvolta sia strumento/ d'Iddio la forza del dente d'un lupo." (29)
   La figura allegorica del lupo di Gubbio è quella del convertito, e si trova con altri convertiti, e che conserva per qualche parte la sua natura originaria, che non vuole perdere, ma bensì metterla al servizio della Fede.
   Questa sua empatia con i convertiti la si ritrova nelle sue opere, come appunto il "Sant'Agostino" del 1929, di cui già ne fa parola nella già citata lettera del 4 ottobre 1925 a Prezzolini; così come per eccesso si potrebbe parlare quasi di conversione del Diavolo come estrema conclusione del suo libro "Il Diavolo" del 1953, infatti Papini nell'ultimo capitolo "Il Diavolo sarà salvato?" si dice speranzoso che nonostante che i "trattati di teologia continueranno a dire di no alla dottrina della riconciliazione totale e finale, il cuore ....... seguiterà a bramare e ad aspettare il si. Alla scuola di Cristo abbiamo imparato che soprattutto l'impossibile è credibile" (30): come si può comprendere il Papini è spesso su posizioni molto personali, ma che contengono in sè spunti che col tempo troveranno rispondenza in posizioni che rispecchiano un continuo approfondimento del Cristianesimo in una prospettiva umanistica cristiana, come abbiamo occasione di riscontrare sotto l'attuale pontificato.
   Questo suo essere ci viene chiarito da pensieri da lui registrati sul solito "Diario" e che suonano chiaramente critici nei confronti del Clero e della Gerarchia ecclesiastica, senza riguardi neanche per il massimo vertice, anzi ín più di un'occasione si dimostra critico severissimo nei riguardi di Pio XII; eppure egli che frequenta preti modernisti e spesso ai margini dell'ordinamento religioso, quando questi attaccano e criticano le strutture della Chiesa egli se ne fa subito difensore deciso e convinto: "Viene da me Levasti con Bonajuti e Fracassini. Sopraggiunge Giuliotti e si comincia un gran discorso su Chiesa e cristianesimo. I due preti (B. e F.) accettano il Vangelo, specie Bonajuti, senza restrizioni e con calore che par sincero, ma quanto alla Chiesa e all'autorità della C. ricascano nel solito equivoco che la Chiesa siamo noi ecc. Spettacolo strano e anche penoso vedere tre laici che difendono la disciplina romana e la supremazia del Papa contro due preti". (31)
   In altre occasioni troviamo pensieri di stampo opposto, del tipo: "In Italia c'è chi accetta Cristo per amore dei preti; c'è chi sopporta i preti per amore di Cristo. Iritualisti e gli evangelisti. lo sono fra i secondi. Ogni età ha il suo modo per uniformarsi a Cristo nella Passione. Il martirio di oggi è la convivenza con certi cattolici e certi preti". (32)


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   Queste contradditorietà trovano una possibile comprensione tramite quegli scritti che originariamente hanno ben altra funzione da quella di essere pubblicati, le lettere, i diari', dove un autore, non tenendo presente che questo genere di scritti sono assai ambiti post mortem, si lascia andare ad affermazioni e chiarificazioni che in altra sede assai molto meno facilmente rilascerebbe. Infatti nella lettera del 15 febbraio 1948 indirizzata a Prezzolini, Giovanni Papini lascia chiaramente intendere come ancora, quasi settantenne, sia egli ancora interiormente contrastato: "Quanto alle mie idee tu saresti ben sorpreso se potessi parlare con te a lungo come si faceva una volta e ti accorgeresti che siamo assai meno lontani che tu non immagini. Il mio Cristianesimo (più desiderato che praticato) nasce e sorge e si nutre di un pessimismo quale pochissimi professano perchè quasi nessuno osa guardare con occhio asciutto l'imbecillità, la cecità e l'ignominia degli uomini. Ma invece di manifestare questa scoperta (che aggiungerebbe dolore a dolore) son trattenuto da un sentimento (irrazionale) di pietà. V'è forse speranza di migliorare qualche anima, di calmare qualche angoscia, di confortare e rianimare qualche disperato. Forse è illusione, ma siccome questo sentimento, in me, è sincero, penso che val meglio un'illusione benefica che una crudeltà nociva. Ogni tanto però, riaffiora la tentazione di dire tutto e se tu potessi leggere certi capitoli e appunti del "Rapporto agli uomini" scritti in questi ultimi anni ti meraviglieresti e forse ti piacerebbe. Ma ritengo che bisogna esperire tutte le prove e, più di tutte, quelle del Cristianesimo. Le Lettere di Celestino sono una specie di ultima ratio: vedremo gli effetti". (33)

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   La cultura italiana della prima metà del novecento è caratterizzata da tre figure di cattolici scrittori: differenti fra loro per molti aspetti ma, nel contempo, vicini, e tutti e tre toscani; è nostra opinione che essi caratterizzino meglio di chiunque altro la cultura cattolica italiana negli anni che dall'inizio del secolo vanno sino alla seconda guerra mondiale e la caratterizzano nel senso più autentico che può essere dato da laici, senza nulla aver da spartire con i turbamenti sensualistici di un Fogazzaro o i modernismi alla Casati, Bonajuti ecc. e neanche col fiorettismo senza nerbo dei molti autori di un'esegetica per fanciulli: il loro è un cattolicesimo severo e quando necessario battagliero, ma anche pacato e sereno, questi tre autori sono: Domenico Giuliotti, Giovanni Papini e Piero Bargellini.


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   Tre toscani terragni, riguardanti particolarmente agli usi e alle tradizioni della campagna che, allora, il sentimento religioso ed il senso della tradizione erano saldamente radicati nella campagna toscana: era più il popolo che sentiva vivi ed operanti questi sentimenti che non una borghesia od una nobiltà ormai incittadinata e presa da idee illuministe e positiviste; si ha infatti da tener presente come í movimenti di carattere sociale e religioso, in difesa di valori ed usi tradizionali ebbero origine proprio dagli strati popolari e rurali, quali ad esempio i "Viva Maria" che insorgevano contro una nobiltà ed un clero riformista che metteva in danno ordinamenti sostanzialmente civili e religiosi. (34)
   Così si diceva tre scrittori con tre personalità fra loro differenti, tre storie spirituali e tre atteggiamenti fra loro diversi ma tendenti agli stessi scopi ed in armonia fra loro. Papini al centro fra gli altri due fu forse la figura dí maggior rilievo, o comunque, quella di maggior incisività e popolarità; forse la più articolata e, ripetiamo, complessa ma che giunse proprio anche in virtù dello stimolo di Domenico Giuliotti, il Silverio della "Seconda nascita", alla convenzione.
   Domenico Giuliotti, cattolico integrale, approda anche lui, come Papini, ma anche molto prima di Papini, al Cattolicesimo romano, dopo un periodo di esperienze di tendenza anarcoide. Egli con la Fede Cristiana trova le ragioni per una sua battaglia per l'uomo e da allora, a differenza di Papini, non avrà più dubbi, (almeno che ci possano esser noti) più incertezze: Domenico Giuliotti ci sembra che ormai sfugga aí miraggi dell'intellettualismo, da allora egli sarà il rabbioso difensore della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, basti ricordare qualche pagina di una delle sue opere più note "L'ora di Barabba", le cui pagine acri e appassionate denunciano, al di la degli insulti e delle violenze verbali, un appassionato amore per coloro che egli vorrebbe salvare nonostante la loro volontà; nel contempo nelle sue pagine migliori possiede un'asciuttezza di stile ed uno spessore che ben raramente ci sarà dato di trovare in autori dello stesso campo.
   Ed è proprio dalle pagine dell'Ora di Barabba che Domenica Giuliotti rivolge a Giovanni Papini un'appeilo affinchè questi si risolva a quel passo determinante che potrà fare di lui una voce "vera" e viva della società italiana: "Manca in questi tempi, satanicamente calamitosi, un grande ed eroico scrittole cattolico.
   Il Clero, in gran parte, è mediocre. Il laicato cristiano non ha voto; il laicato anticrístiano celebra, grugnendo, la melma, la broda e lo sterco del proprio trogolo.
   Perché non saresti tu il Veuillot d'Italia?


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Non io ti direi queste cose se non ti credessi capace d'uccidere in te l'uomo vecchio e di buttarlo, con disgusto, nell'infetta sardigna degli scrittori cerebrali.
   Il crederti capace di ciò vuol dire crederti potenzialmente grande. La tua mediocrità attuale (Carducci, per intenderci, in confronto a San Benedetto Labre è un nachero sporco) deriva dai non essere stato investito ancora dallo splendore cattolico.
   Ma la tua anima, profonda, inquieta, caotica (e tuttavia sempre assetata d'acqua viva, sotto agli scolaticci degli infiniti belletti che la imbrattarono) ha cercato, ha sofferto, ha desiderato, e cerca e soffre e desidera e forse, ora, spera...." (35)
   Lo scritto di Giuliotti denota una profonda capacità di giudizio ed un'acuta introspezione psicologica, quando addita a Papini quella che può essere la sua funzione di uomo guida: il grande scrittore cattolico che, a giudizio di Giuliotti, manca all'Italia. Sembrerebbe che egli intuisca la profonda aspirazione (quasi una necessità) dì Papini d'esser maestro e profeta: d'altra parte questa sua vocazione ci viene registrata sulle pagine del Diario e di alcuni volumi a cominciare da "Un uomo finito", annotazioni sintomatiche come: "Sempre vagheggio un libro che possa incantare e trascinare e mutare milioni d'uomini. "Celestino VI" non basta. Idee ne ho molte ma non so ancora quale scegliere. Ed avrò la forza e il genio di scrivere quelle parole semplici e potenti che il mondo aspetta?" (36)
   E' nostro parere che Giuliotti sia stato sempre più conseguente e che tese a concretizzare nel comportamento i suoi asserti: un'aspetto primario della rinascita cattolica in quegli anni riteniamo sia da considerarsi il recupero dei valori del mondo rurale come espressione di una comunità organica e ordinata da contrapporsi al disordine ed al malessere del mondo cittadino (proletario e borghese) e se non è ovviamente possibile un reale recupero in toto, questo avviene come immagine a cui fare riferimento, ed a questo proposito è chiarificatrice la recensione che Adriano Tilgher fece a suo tempo all'Ora di Barabba (37) dove il censore chiarisce con poche parole lo schema di società ideale quale si configura in Domenico Giuliotti.
   Comunque a questo tentativo di recupero di un sistema di vita semplice e più naturale all'uomo Domenico Giuliotti tendé con volontà decisa ritirandosi in un suo poderetto situato a Greve, dove condusse una vita austera e semplice secondo le idee da lui professate. Di questo suo tenore di vita ce ne parla Giovanni Papini sia ne "La scala di Giacobbe", sia ne "La seconda nascita". (38)
   Per Papini invece questo recupero della civiltà contadina non fu così totale, per lui ebbe si una forza d'attrazione prepotente e che trovava echi in ricordi di fanciullezza,


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e direi che proprio in questa condizione di vita naturale, di diverso rapporto dell'uomo con il suo ambiente vero che Giovanni Papini percepisce ancor meglio il valore del Cristianesimo.
   Certo egli restò per molti aspetti l'uomo dì cultura della città, pur avendo saputo dare le sue più belle pagine di poesia proprio in quelle opere in cui si abbandona al senso della campagna ed ai sentimenti che da questa egli recupera. Certo che non essendovi nato, per lui, era ben più difficile che per il Giuliotti od un Soffici uscire dalla città definitivamente, forse anche questo fa parte del bagaglio dei contrasti, delle luci e delle ombre di Giovanni Papini.
   In questa sua riscoperta della vita rurale molti suoi critici hanno voluto vedere una forma di sua regressione culturale, il recupero di una falsa Arcadia irrealizzabile ed antistorica: ma Papini ha sempre rifiutato le false Arcadie, mentre invece in questa dimensione riscopre condizioni e valori umani che sono alla base di ogni vera esistenza.
   Alcuni di questi critici lo accusano di dare un'immagine della società contadina sfalsata, perché dai suoi scritti "nulla è dato capire che siamo agli anni delle leghe e delle agitazioni rurali che segnano l'inizio di una presa di coscienza di classe del mondo contadino, e a cui proprio la Toscana, nella quale maturava l'ideologia contadina del Papini, non era rimasta certo estranea" (39), non rilevando che Papini cercava di estrarre una realtà al di fuori dei condizionamenti contingenti, gli aspetti eterni di una realtà antichissima e che sempre si rinnova, come il ciclo della natura, e che proprio determinati fatti, come quelli a cui si allude nel brano riportato, hanno finito col determinare in parte una perdita di identità da parte della società contadina, facendone dei proletari sradicati dalla propria storia e dalle proprie tradizioni, ed è questo allora il vero fenomeno di regressione che abbassa una categoria sociale con una sua fisionomia ben definita alla condizione di massa anonima e senza forma.


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NOTA BIBLIOGRAFICA

Un'amplissima bibliografia che copre gli anni dal 1911 al 1950 si trova nel terzo volume di "Pian dei Giullari" di Piero Bargellini, edito da Vallecchi nel 1952, alle pagine 632-636.

Grana Gianni: "Giovanni Papini" in "Letteratura italiana, I Contemporanei" Vol. I, Marzorati, Milano 1963
Horia Vintila: "Giovanni Papini", Volpe editore, Roma 1972
Mario Isnenghi: "Papini", La Nuova Italia, Firenze 1972
Mazzoleni Filiberto: "Presenza di Papini nella cultura italiana del Novecento" in "Civitas", settembre-ottobre 1964
Betocchì Carlo: "La poesia di Papini" in "Leggere", agosto settembre 1956
Mario Gozzini
Adolfo Oxilia
Luigi Santucci
Adriana Zarri
Numero speciale de "L'Ultima", giugno 1957
Vittorio Vettori: "Giovanni Papini", Borla, Torino 1967


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